Chi mi ha conosciuto in ambito lavorativo sa che ho una certa attitudine al parlare in pubblico. Non sono affetto dal panico della platea numerosa, parlo senza intercalare “ehhh” tra una frase e l’altra e mi esprimo con una decorosa proprietà della lingua italiana, a parte un innegabile accento bolognese. Tutto questo non è innato o dovuto al patrimonio genetico ma, come molte cose nella vita, frutto di alcune esperienze molto significative. 

La prima e più importante accadde nel 1975.

A luglio mi ero laureato in ingegneria e in autunno, appena finito il servizio militare, ottenni una borsa di studio come ricercatore del CNR presso l’Istituto di Fisica Tecnica della Facoltà di Ingegneria, per una ricerca sulla termodinamica applicata agli impianti tecnici civili. Va detto che a quei tempi i ricercatori CNR erano l’ultima ruota del carro nel panorama di Baroni, Professori, Associati, Incaricati e Tecnici. Dato che le assunzioni e i passaggi di ruolo erano bloccati, avere i ricercatori faceva comodo. Infatti, dopo i primi mesi di attività di ricerca, a me e ad altri due colleghi ricercatori, fu chiesto di partecipare più attivamente alla vita d’Istituto. In pratica: "vi state sollazzando con la ricerca ma è ora che vi rimbocchiate le maniche e diate una mano collaborando agli esami e alle esercitazioni dei vari professori".

Per quanto riguardava gli esami non era un problema, sono le situazioni dove ci si prepara per tempo una serie di domande chiave e qualche esercizio ad integrazione dell’esame. Inoltre parti avvantaggiato perché per gli studenti, spesso coetanei se non più vecchi, sei un “professore” quindi sono loro ad avere soggezione o timore di te.

Diverso il discorso delle esercitazioni. In sostanza erano momenti dove veniva approfondito o integrato, in chiave sia teorica che pratica, qualche particolare tema trattato durante le lezioni.

Fu così che a me e ad un altro borsista, che chiamerò GG, fu richiesto di tenere delle esercitazioni sulla fluidodinamica. Dato che allora, per ottimizzare le risorse, venivano accorpati più corsi di laurea di Ingegneria (civile, elettronica, informatica …), le esercitazioni si svolgevano in aule ad anfiteatro stracolme di studenti!

L’idea di misurarci con una folla del genere, per la prima volta in vita nostra (!), ci preoccupava parecchio. Per darci coraggio decidemmo di sostenerci a vicenda: io sarei andato alla lezione di GG e mi sarei seduto di fianco alla cattedra rivolto verso gli studenti e la mia presenza lo avrebbe rassicurato. GG rischiò comunque di andare in panico al momento di entrare in aula ma poi spinto, anche fisicamente, da me, affrontò la situazione. La esercitazione di due ore arrivò a destinazione senza inconvenienti. Due giorni dopo toccava a me fare un’esercitazione e contavo sull’appoggio morale di GG che però andò nuovamente in panico e rifiutò di ricambiare il favore promesso. Mi sarei quindi trovato da solo davanti alla moltitudine di studenti.  

Devo fare qui un inciso fondamentale per il racconto. All’epoca, il professore titolare della cattedra di Fisica Tecnica, il Prof. G, aveva un “bidello”, il signor F., che si dedicava esclusivamente a lui. In gergo militare si sarebbe definito come l'attendente di un ufficiale. Era intoccabile per qualsiasi altra funzione. Tra i suoi compiti vi era quello, unico caso nella facoltà di Ingegneria, di accompagnare il Prof G. in aula e mentre questi si preparava ad iniziare la lezione lui, l’attendente, gli puliva le lavagne con uno straccio bagnato e gli depositava una cimosa intonsa e alcuni gessetti, sempre nuovi, sulla cattedra. Questo rito era sempre visto con estrema meraviglia dagli studenti e sottolineava l’importanza del professore.

Torniamo al momento in cui sarei dovuto andare a fare la mia esercitazione da solo, senza l’appoggio morale del mio collega. Mentre discutevamo animatamente sulla sua vigliaccheria, F. assisteva alla scena. Alla fine mi avviai da solo verso l’aula. Allora F. mi si avvicinò e si offerse di fare un po’ di strada con me per farmi coraggio. Quando arrivammo davanti all’ingresso dell’aula, anziché tornare all’Istituto, inaspettatamente F. entrò prima di me e davanti a tutti gli studenti allibiti, pulì le lavagne con uno straccio umido e mise una cimosa pulita e dei gessetti nuovi sulla cattedra! Poi si voltò e uscendo mi disse ad alta voce “buona lezione ingegnere”. Tutti gli studenti mi guardarono come a chiedersi chi diavolo fossi. Rimasi sconcertato ma nello stesso tempo mi sentii sollevato, sicuro di me e padrone della situazione. Le due ore volarono via senza intoppi.

Dopo essere rientrato all’Istituto andai subito a ringraziare F. il quale mi fece un gran sorriso, mi diede una pacca sulla spalla e una complice strizzata d’occhio. Con la sua sensibilità ed il suo gesto mi aveva liberato dal panico del parlare in pubblico una volta per tutte. 

Negli anni a seguire avrei partecipato a vari corsi manageriali dove avrei perfezionato la tecnica e imparato altri trucchi del mestiere, ma solo grazie a quella esperienza singolare il timore della platea non mi avrebbe mai toccato in tutta la mia carriera professionale.  

© Copyright 2021 Giorgio Favaretto - questo articolo si trova nel MENU'  "PICCOLE STORIE VERE"